Forse, ma solo forse, il mondo della moda sta cambiando, ed è una mutazione che potrebbe riguardare intensamente anche il made in Como del tessile. Il ricco e privilegiato e – per definizione – futile circo del fashion, infatti, in questa settimane ha messo in mostra anche sensibilità, impegno, attenzioni e riflessioni che prima sarebbero state inaspettate, impossibili. Molti dei big del settore, che tra l’altro sono anche clienti delle industrie seriche comasche, hanno messo mano al portafogli e hanno donato, sostenuto, sponsorizzato.
E non questa o quella vacua influencer ma ospedali, terapie intensive, enti benefici. Quella che era, diciamocelo, molta aria fritta mischiata a pochi guizzi di estro e di artigianalità creativa, quel mondo che si ammantava di significati psicologici e sociali e umani per una nuance di colore, per un plissè, per uno sbuffo o una trasparenza su capi spesso importabili, buoni per le sfilate ma non per la vita vera per quanto di lusso, forse è migliore di quanto sembrava. Colpa o merito dell’emergenza Coronavirus, che ha obbligato a riflettere sulla delocalizzazione delle produzioni, sul tessuto acquistato in Oriente ma con finissaggi e tinture nell’Europa dell’Est e confezioni magari in Etiopia, il tutto insignito della roboante etichetta di “made in Italy”; che ha spinto qualche stilista di grido a pensare di saltare addirittura una stagione, o magari a immaginare di ridurre uscite e passerelle e proposte.
Vinceva il marketing sull’abito, potrebbe non essere più così. C’è da sottolineare che di “sberle” il mondo della moda ne ha già prese. Era il 2013 quando in Bangladesh morirono 1.045 persone nel crollo del Rana Plaza, mega laboratorio di confezioni a bassissimo costo per i marchi top dell’abbigliamento mondiale. Tragedia che suscitò scalpore, ma che venne presto dimenticata. Ecco, il rischio che il Coronavirus diventi un nuovo Rana Plaza, con scarse o nulle conseguenze a lungo termine, effettivamente c’è. Però, forse, il momento è diverso: saltato il salone del mobile insieme a tutta una manciata di fiere tessili e di sfilate, il design e il made in Italy di qualunque genere devono fare i conti con una realtà fatta di minore apparenza e più sostanza.
Un divano o una gonna o una camicia dovranno soprattutto adempiere alla loro funzione primaria, e cioè farci sedere o vestirci. Aggiungiamo poi che personaggi di punta del sistema mondiale della moda hanno lanciato segnali di attenzione a tutta la filiera: tra i molti Francois-Henry Pinault (Kering) ha ricordato l’importanza per la moda di proteggere tutta la filiera. Intanto Armani, Prada, Dolce & Gabbana, Etro, Zegna e molti altri hanno donato soldi, e tanti, all’Italia e al sistema sanitario che sta lottando per la salute di tutti noi. Insomma, potrebbe cambiare qualcosa in meglio, anche per l’industria tessile locale.
Peccato che, proprio da Como e proprio in questi giorni, arrivano voci – sussurri, niente di ufficiale ma comunque ripetuti – che segnalano da parte di uno dei big mondiali della moda la richiesta di spostare i pagamenti a chissà quando ai propri fornitori, setaioli compresi.